Non c’è nulla di meglio di un buon quadro sul nulla.
Red, Orange, Tan and Purple 1954, è il quadro di Rothko di cui mi sono innamorata per la prima volta. Tutto ebbe inizio grazie a Prime, un film in cui questa tela assume il ruolo speciale di riflettere attraverso i toni intensi la magia, la passione e l’alienazione di una storia d’amore senza lieto fine.
Ed è proprio il lieto fine l’elemento che viene spesso a mancare nell’arte di Rothko, un’arte inquieta e vulnerabile poiché costantemente riflesso dello stato d’animo predominante dell’artista, un’arte che ha da sempre rifiutato la rappresentazione figurativa della realtà, facendosi piuttosto riflesso dell’anima delle cose; di quella controparte luminosa e conflittuale che va oltre la superficie esteriore della realtà. Un’arte che si rivolge all’anima dell’artista così come all’anima di ogni spettatore e che colpisce direttamente all’essenza più profonda di ogni essere umano, quella fatta di pure emozioni.
Nel corso della sua carriera Rothko verrà influenzato da correnti artistiche come quella surrealista negli anni 40 del Novecento. Tuttavia, sebbene sia possibile trovare degli analogismi con le opere dei più importanti surrealisti Europei dell’epoca, gli obiettivi e le idee rappresentati nelle tele di Rothko sono differenti. Definitosi lui stesso “il pittore delle idee” infatti, Rothko preferirà sempre rappresentare la realtà attraverso la chiave dell’introspezione, un tentativo di catturare la verità e le emozioni che stanno oltre la tangibile fisicità del mondo reale.
Dal 1950 in poi la sua arte troverà la più elevata realizzazione in quello stile indelebile di macchie di colori intense che diventerà per sempre il marchio indistinguibile dell’artista. Contemporaneamente all’evoluzione di questo stile vi sarà anche l’intenzione di non attribuire un titolo alle opere. Secondo Rothko infatti ogni riferimento esterno all’opera d’arte sarebbe risultato superfluo;
Il potere della scrittura interromperebbe l’esperienza di questi dipinti, non sarebbe capace di prendere parte al loro universo.
L’assegnazione determinata di un titolo avrebbe dunque privato lo spettatore dell’opportunità di creare una connessione intima e del tutto personale con il dipinto. In questo stesso periodo Rothko deciderà inoltre di cambiare dimensione alle sue tele, preferendo un formato più grande nel tentativo di travolgere lo spettatore, creando così un dialogo più intimo e un pieno coinvolgimento dei sensi.
Dipingo quadri di grandi dimensioni; sono consapevole che storicamente dipingere quadri enormi comportava un aspetto imponente e pomposo. Ad ogni modo, la ragione per cui li dipingo è precisamente perché voglio essere intimo e umano. Dipingere un quadro di dimensioni ridotte vuol dire mettere se stessi fuori dalla propria esperienza, considerare un’esperienza attraverso uno stereoscopio o una lente che rimpicciolisce. Quando si dipinge un quadro di grandi dimensioni, ci si è dentro. Non si può decidere più nulla.


Mark Rothko 1961, Whitechapel Gallery, view 3. Photograph: Sandra Lousada
Nelle sue opere Rothko metteva così tanto di se stesso, la sua nozione di realtà, le sue più intime e vitali emozioni, da considerare a volte rischioso il fatto di esporre queste stesse agli occhi del mondo intero. Un mondo da lui approcciato con sentimenti molto contrastanti: da un lato la diffidenza nei confronti di un pubblico spesso incapace di comprendere la sua arte, in un periodo storico fondato prettamente sull’estetica accademista, dall’altro il disperato bisogno di quello stesso pubblico al fine di dare senso alle sue opere.
Un quadro vive in compagnia, dilatandosi e ravvivandosi nello sguardo di un visitatore sensibile. Muore per la stessa ragione.
Per Rothko infatti la relazione tra l’osservatore e l’opera d’arte è fondamentale. L’esistenza di quest’ultima viene giustificata solo nel momento in cui viene instaurato quel dialogo segreto tra le due parti, una interazione inconscia tra il colore e l’anima dello spettatore in un’implosione segreta di emozioni, illeggibili alla vista più superficiale.
Le grandi macchie di colore sulle tele di Rothko dunque non vanno lette con gli occhi, ma con il cuore.
Amo vedere l’oggetto e il sogno disciogliersi nell’immaterialità del ricordo e dell’allucinazione più di quanto desidererei. L’artista astratto ha dato vita materiale a molti mondi sconosciuti, a tempi ignoti. Ma io rifiuto la sua negazione dell’aneddoto, come rifiuto la negazione dell’esistenza materiale. Per me infatti l’arte è un aneddoto dello spirito, è l’unica possibilità di rendere concreta la resa della sua velocità, tanto variabile, e del silenzio.
Durante il corso della sua vita l’arte di Rothko farà da specchio ai mutevoli sentimenti dell’artista riflettendo nelle sue tinte periodi molto contrastanti tra loro. Agli inizi degli anni 50 per esempio le tele sono pervase da tonalità cangianti, l’espressione di un’arte che trasmette emozioni forti e pieni di vita, per passare poi alla fine dello stesso decennio ad una gamma di colori più scuri che riflette una luce nera e corrosiva, portatrice di una condizione esistenziale disturbata.
Gli ultimi due anni della sua vita saranno caratterizzati dai così detti black on grey, toni grigi e impenetrabili, rappresentanti metaforici del vuoto, del silenzio e dell’assenza. Definizione di uno stato d’animo al culmine della decadenza che lo porterà poi al suicidio.
Nelle tele di Rothko infine, non ci sono interpretazioni giuste o sbagliate. La sua arte è un tentativo semplice di porre lo spettatore in un intimo dialogo con se stesso attraverso l’associazione dei colori e l’evocazione di emozioni contrastanti e frammentati della propria esistenza.
…L’espressione semplice di un pensiero complesso.





